Il fascino oscuro del male: perché non smettiamo di guardare (e ascoltare) storie crime
- Maria Grazia Ragazzini
- 19 ott
- Tempo di lettura: 2 min
C’è qualcosa di affascinante nel guardare il male da vicino, purché resti chiuso dentro uno schermo oppure dentro a un paio di cuffie.
Negli ultimi anni il true crime è diventato un fenomeno culturale trasversale. Serie, podcast e documentari occupano le prime posizioni delle classifiche streaming, trasformando la cronaca nera in una forma di intrattenimento di massa. Ci diciamo che è curiosità, che serve a capire la mente umana o a comprendere la società. Ma dietro questa passione si nasconde anche un meccanismo più ambiguo: una sorta di feticismo per il crimine, che oscilla tra interesse e fascinazione.
Uno dei motivi è la paura. Guardare o ascoltare un delitto raccontato ci permette di affrontare l’idea del pericolo da una posizione sicura. È un modo per esplorare l’angoscia senza esserne coinvolti. Conoscere i dettagli, analizzare i comportamenti, ricostruire le dinamiche ci dà la sensazione, illusoria, di poter controllare ciò che temiamo. Sapere “come è successo” diventa un modo per credere che “a noi non succederà”.
Il true crime funziona anche come una forma di educazione alla paura. Ci abitua a diffidare, a leggere i segnali, a immaginare scenari di rischio. Ma la linea tra consapevolezza e ossessione è sottile. Il rischio è che la paura si trasformi in curiosità morbosa, o in una sorta di consumo estetico della violenza: la tragedia come spettacolo, la sofferenza come trama.
Oggi il true crime è anche un mercato. Podcast e docuserie vengono seguiti con la stessa leggerezza con cui si guarda una fiction: mescolano cronaca, intrattenimento e narrazione. Si commentano sui social, diventano meme, generano community di appassionati. In questo processo, la realtà tende a diventare contenuto. E la sofferenza, materiale narrativo.
Eppure, le storie crime parlano meno di assassini e più di noi. Riflettono la nostra necessità di dare senso al disordine, di trovare un colpevole, di restituire una logica al caos. Ogni caso risolto ci dà l’illusione che la giustizia esista, almeno in quell’ora di visione o in quell’episodio da trenta minuti. Quando invece la verità resta ambigua, continuiamo a cercare, spinti da un bisogno che non è solo narrativo, ma anche esistenziale.
Forse il punto non è smettere di guardare o ascoltare, ma imparare a farlo in modo consapevole. Ricordare che dietro ogni storia ci sono persone reali, famiglie, vite interrotte. E che la fascinazione per il male non è soltanto morbosa, ma anche un modo per misurarci con la nostra vulnerabilità, con ciò che ci spaventa e al tempo stesso ci attrae.
Forse, allora, questo feticismo moderno non è solo un sintomo, ma anche un linguaggio.Un modo attraverso cui la nostra epoca tenta, ancora una volta, di dare forma all’oscurità.



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