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Il lento sguardo del male e del bene

  • Immagine del redattore: Maria Grazia Ragazzini
    Maria Grazia Ragazzini
  • 8 ott
  • Tempo di lettura: 2 min

Aggiornamento: 10 ott

Quando si parla di cinema sull’Olocausto e il nazismo, la tendenza è quasi sempre la stessa: immagini forti, ritmo incalzante, il trauma mostrato in modo diretto e spettacolare. Due film recenti, però, scelgono una strada diversa: A Hidden Life (2019) di Terrence Malick e La zona d’interesse (2023) di Jonathan Glazer. Entrambi sono film lenti, quasi contemplativi, ma raccontano gli orrori del nazismo da prospettive radicalmente diverse. La lentezza, qui, diventa strumento di riflessione morale, più che estetica.


Il coraggio invisibile: A Hidden Life

Il film di Malick racconta la storia vera di Franz Jägerstätter, contadino austriaco che rifiutò di giurare fedeltà a Hitler. La lentezza narrativa di Malick non è un vezzo stilistico: è preghiera visiva, tempo dedicato alla contemplazione della natura, dei gesti quotidiani, della fede. L’orrore del nazismo, seppur presente, resta spesso fuori campo: ciò che colpisce è il sacrificio morale dell’individuo, la solitudine di chi dice “no” a un mondo che accetta il male come normale.

Il contrasto tra i paesaggi incontaminati e la corruzione morale degli uomini rafforza l’effetto: la natura resta pura, mentre l’umanità è corrotta. Il film ci invita a soffermarci, a sentire il peso della scelta etica, a comprendere che resistere può significare rinunciare a tutto, fino alla vita stessa.


La banalità del male: La zona d’interesse

Glazer, al contrario, ci porta accanto ad Auschwitz, raccontando la quotidianità della famiglia del comandante Rudolf Höss. La lentezza del film è disumana: routine domestica, giardino curato, bambini che giocano, mentre fuori il genocidio avanza. Non c’è eroismo, non c’è resistenza. L’orrore è normalizzato, trasformato in rumore di fondo, percepibile più con l’udito che con la vista.

Il film fa sentire lo spettatore intrappolato nella routine del male: nessuno sceglie di opporsi, nessuno riflette sulla propria responsabilità. È un esercizio morale destabilizzante: ci mostra quanto possa essere silenziosa, invisibile e terribilmente normale la malvagità. Come scriveva Hannah Arendt, la “banalità del male” non è fatta di mostri, ma di persone ordinarie che accettano senza riflettere l’ingiustizia; Glazer mostra esattamente questo: la routine domestica come sfondo dell’orrore.


Due poli morali: il santo e il mostro

Mettere a confronto i due film significa osservare due poli opposti. Malick racconta il coraggio della coscienza, la capacità di dire “no” in solitudine. Glazer mostra invece un mondo in cui il “no” non esiste: la complicità, l’indifferenza e la routine diventano strumenti dell’orrore. Entrambi i film parlano però del presente: del rischio di abituarsi all’ingiustizia, della responsabilità individuale di fronte al male collettivo.


La lentezza come forma di resistenza

In conclusione, la lentezza nei due film non è fine estetico: è etica. Malick invita a fermarsi per contemplare il bene; Glazer obbliga a fermarsi per riconoscere il male. In un’epoca di consumo rapido, questi film ci ricordano che capire il passato richiede tempo — e che la responsabilità morale non può essere frettolosa.


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