Labubu Mania: Pop Mart in borsa, noi in fila
- Maria Grazia Ragazzini
- 8 set
- Tempo di lettura: 3 min
C’è qualcosa di stranamente familiare nel modo in cui tutti oggi vogliono un Labubu. Un pupazzetto carino-mostriciattolo, un sorriso smaliziato, orecchie sporgenti e l’aspetto da creatura giocosa e un po’ inquietante. È diventato il “gioiello usa e getta” del presente: lo metti al portachiavi, lo agganci alla borsa, lo sfoggi su TikTok, diventi parte di un’onda.
Quando guardo il fenomeno Labubu, non vedo solo bambini che collezionano giocattoli: vedo qualcosa che parla della nostra società, dei nostri vuoti e delle nostre paure. Perché si compra, si fa la fila, si spende, non tanto per il valore reale dell’oggetto, ma per quello simbolico, per la frazione di identità che promette. Un Labubu ti dice: «sono al passo con i trend», «so cosa va di moda», «voglio essere visto».
Questo non è un attacco al giocattolo, alla creatività o al bello: è piuttosto una riflessione su cosa succede quando il desiderio diventa una forma di consumismo ossessivo, quando la moda non è più espressione di sé ma certificazione sociale. Il Labubu non nasce male, è capace di evocare nostalgia, ironia, persino una forma di ribellione estetica: “carino e deformato”, un’idea di imperfezione che, in un mondo ossessionato dalla perfezione, può far respirare. Ma è anche diventato un “pezzo del momento”, usa-e-mostra, accessorio che soddisfa più l’occhio degli altri che il cuore nostro.
Guardando le cifre: la società che li produce, Pop Mart, ha visto utili e valore del titolo esplodere nell’ultimo anno. I Labubu sono venduti in blind box, cioè scatole sigillate che non rivelano quale variante riceverai: grande mistero, grande attesa. E spesso grande frustrazione. Le edizioni rare costano decine, centinaia, a volte migliaia di euro sul mercato secondario. C’è chi fa la fila, chi spende tanto, chi cerca di possedere il “più raro”. Questo crea un circuito in cui la scarsità – reale o percepita – diventa motore di valore. E se guardiamo la borsa, il fatto che aziende come Pop Mart siano tra le più quotate e in crescita ci dice molto su quali sono le cose che oggi muovono davvero il mondo: non l’innovazione tecnologica pura, non la scienza, non la cultura, ma il desiderio di possedere l’oggetto trendy del momento.
E qui arriva il punto più critico: quando questa ossessione per l’oggetto prende il posto di qualcosa che davvero ci riempie, ci nutre, ci fa crescere. Nel vuoto che lasciano valori collettivi più forti – comunità, empatia, impegno sociale, passioni non consumistiche – cose del genere si infilano come un cerotto seducente: bellezza immediata, desiderio di apparire, bisogno di approvazione esterna.
In sostanza, i Labubu rappresentano un simbolo: la superficialità della società contemporanea. Dove spesso il “possedere” conta più del “fare”, il visibile più del sostanziale. Dove il look, l’apparenza, l’esserci nel trend sembrano sostituire l’essere. Dove il prezzo non è solo cifra ma segnale di status. Dove l’ego digitale richiede conferme: like, follower, stories, trend.
Non dico che sia tutto male, né che ogni persona che possiede un Labubu sia ipocrita o vuota. Però è utile guardare con occhio critico questi fenomeni. Il rischio è che ci abituiamo a considerare le mode come cose senza profondità, come esperienze consumistiche che finiscono nel dimenticatoio non appena arriva la prossima ossessione. Che perdiamo la capacità di coltivare valori duraturi: la memoria, l’amicizia, la solidarietà, l’arte vera, l’introspezione.
Ed è pur vero che la moda stesso non è mai stata solo utilità: ha sempre avuto valore estetico, simbolico, ha sempre creato comunità. Ma la differenza sta nella consapevolezza: se acquisto un Labubu per divertimento, per fantasia, con leggerezza, ok. Se lo acquisto perché sento che senza quel gesto non valgo, non esisto, allora qualcosa di sbagliato si è insinuato.
Insomma, la moda dei Labubu ci invita a riflettere su cosa siamo disposti a dare in cambio di “essere alla moda”. Quanto costa, dentro di noi, inseguire il trend più popolare. Forse è arrivato il momento di chiedersi: cosa mi rende davvero felice? È l’oggetto raro, o è l’esperienza autentica? È la visibilità sugli schermi, o è il valore che custodisco nel mio quotidiano?
Perché alla fine, possedere un Labubu può essere divertente. Ma non può essere il pilastro su cui costruire una vita. Se non abbiamo altro su cui aggrapparci, la moda diventa un miraggio lucente che si spegne presto. E allora il nostro compito è riconoscere la differenza tra desiderio e bisogno, tra simbolo e sostanza, tra ciò che ci aiuta a crescere e ciò che ci acceca per un attimo.



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